L’identità genetica di un territorio

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Nella mia professione mi confronto spesso con il tema della conservazione di specie e habitat. Conservazione che a volte pare in conflitto con l’uso delle risorse naturali e del territorio stesso. Uno degli aspetti più controversi riguarda la tutela delle specie locali e la salvaguardia di una particolare “identità”.

Salmo marmoratus, popolazione del basso fiume Tagliamento

Trovo che la confusione fra “biodiversità” e “identità biologica” o “bioidentità” di un territorio sia frequente e fonte di diversi problemi. Il concetto di biodiversità è legato a quello di diversità in senso matematico, possiamo tranquillamente parlare di diversità e darne una misura anche quando affrontiamo il classico problemino del sacchetto di palline.

Sacchetto di palline tutte bianche, diversità zero, metà bianche e metà nere, aumenta, un terzo per ciascuna su bianche, nere e gialle aumenta ancora e via dicendo. Molti si sono impegnati a creare indici di diversità, che hanno indubbiamente una loro funzione in ecologia, anche se vengono a volte sopravvalutati, nel senso che molti ecologi applicati tendono a identificare un’elevata diversità con una elevata “qualità” o “integrità” dell’ecosistema. Questo non è proprio vero, ma l’argomento di oggi è differente.

Torniamo all’identità di un determinato territorio. Cosa intendo per bioidentità? Per me con questo termine si identificano i “connotati biologici” di una porzione di territorio che riteniamo omogenea. Il discorso sulla dimensione di questa porzione è decisamente complesso, ma proviamo a fare esempi concreti.

Supponiamo di parlare di un tratto di uno dei miei amati torrentelli montani, per capirci uno di quelli in zona montana e portate minime annuali inferiori a 1000 l/s. Di questo genere di torrenti ne possiamo osservare un bel po’ di varianti, differenti per pendenza, natura dei terreni, struttura degli habitat a mesoscala, temperature, andamento annuale delle portate, apporti trofici laterali e produzione primaria in sito.

Se prendiamo una decina di torrentelli di questo tipo, sparpagliati fra le basse prealpi, quelle alte, le Alpi meridionali e quelle settentrionali, scopriremo che esistono differenze sostanziali e riconoscibili nelle biocenosi che li occupano. Ovviamente facciamo finta di essere così fortunati da trovare torrenti dove l’effette dell’intervento umano sia nullo (utopia).

Un problema nella gestione faunistica e floristica del passato è stato quello di volere introdurre a tutti i costi qualunque cosa sembrasse “utile” all’uomo in tutti gli ambienti possibili e immaginabili. Ecco dunque che un torrentello intatto delle Alpi Carniche potrebbe ospitare un paio di specie di pesci, se non nessuna, una specie di grossi crostacei decapodi e una miriade di specie di invertebrati più piccoli, fra cui moltissimi Ditteri, Plecotteri, Efemerotteri e Tricotteri allo stadio preimaginale (larve, neanidi, ninfe).

Bene, sono convinto che analogo torrentello del versante Nord delle Alpi non ospiti la stessa fauna, non esattamente la stessa. Ma l’uomo ha messo mano sulla fauna, un esempio lampante è costituito dalla transfaunazione della trota “fario” dal versante Nord a quello Sud delle Alpi.

In origine nei corsi d’acqua del versante meridionale delle Alpi viveva un pesce che è stato denominato “trota marmorata” e la cui identità è stata riconosciuta la prima volta nel 1829 da Cuvier, naturalista francese, studioso della fauna ittica europea, che ne parla in una sua opera dandone descrizione e stabilendo che questo animale fosse differente rispetto ad altri molto simili, presenti in altre zone d’Europa.

Dalla seconda metà del XIX secolo tuttavia diverse amministrazioni degli stati che governavano le Alpi, in particolare l’Impero d’Austria-Ungheria e il Regno d’Italia, si impegnarono in un’opera di “miglioramento” sia della fauna che della flora. Questo miglioramento, che oggi fa inorridire qualunque biologo assennato, è stato condotto introducendo specie di animali e piante che si ritenevano, a ragione o a torto, più produttive e adatte a determinati ambienti.

Questa convinzione è per lo meno folle se si considera che per la scienza moderna, le specie presenti in un territorio sono il prodotto di un’evoluzione basata anche su selezione, quindi quelle che a lungo andare sono certamente le più adatte a vivere nell’ambiente di origine.

Il punto di vista dei gestori dell’800 e di gran parte del ‘900 tuttavia era molto diverso. Nel caso dei nostri pesci, nessuno si sognava di ritenere importante la conservazione di un’identità biologica del territorio, né di preoccuparsi dell’integrità dei taxa animali e vegetali autoctoni. Per questo motivo il “miglioramento” della fauna ittica avvenne immettendo pesci anche dove non ce n’erano, a uso delle comunità locali, impiegando esemplari di taxa facilmente allevabili e utilizzabili.
La trota comune europea (ancora tutto da discutere se esista una “trota comune”) aveva grandi vantagggi in tal senso: molto adatta a vivere in corsi d’acqua piccoli, freddi e poveri, relativamente facile da allevare e trasportare. Un pesce capace di colonizzare ambienti estremi, molto frammentati. Poco importava che questa trota fario fosse diversa dalla indigena marmorata e che quest’ultima potesse raggiungere taglie molto maggiori rispetto alla trota alpina settentrionale.
Una marmorata difficilmente colonizzerà i torrentelli di testa bacino e se lo farà, avrà taglie paragonabili a quelle della fario. Con un piccolo “difetto”: le marmorate anche in ambiente povero tendono a essere meno voraci delle fario. Per chi pesca usando la lenza è un problema di non poco conto.

Ecco dunque che la trota nord alpina venne introdotta a Sud delle Alpi in un periodo fra 1855 e 1870 circa, espandendosi verso Sud rapidamente tanto quanto era consentito dai mezzi di allora e finendo per sovrapporre il suo areale sia a quello della trota marmorata che a quello di altre trote, per altro simili a lei morfologicamente.

In genere quando si introduce una nuova specie sorgono problemi seri. I primi sono quelli relativi a competizione per spazio e risorse trofiche. La nuova specie tende a occupare spazio e mangiare ciò che mangerebbe una specie indigena, quindi porta la specie locale a diminuire in numero. Un altro problema grosso è che spesso nuove specie portano con sé nuove malattie, magari relativamente innocue per la specie che le sopporta da millenni, ma letale per quella che non ne è mai stata afflitta. Il terzo problema riguarda l’inquinamento genetico, quando la barriera riproduttiva fra le due specie non funziona.

In effetti, in senso linneano, non dovremmo chiamare “specie diverse” due taxa che sono interfecondi. Questo è quanto è accaduto con le trote in Europa: la grande diffusione di esemplari di Salmo trutta di varia origine, quelli con livrea a bolli rossi tanto per capirci, ha finito per inquinare geneticamente le popolazioni di altri Salmo, ben differenziati sul piano morfologico, ma perfettamente interfecondi con la fario nordica.

Ora, il problema cui ci troviamo di fronte è che a distanza di 150 anni circa dall’inizio del processo di “miglioramento” faunistico, abbiamo perso una parte consistente della diversità biologica su scala continentale. Le popolazioni di trota marmorata sono inquinate in gran parte del suo areale, altrettanto vale per le popolazioni di trota macrostigma e di trota “fario mediterranea” della penisola italiana. Non conosco lo stato delle popolazioni balcaniche, ma suppongo siano in condizioni simili.

Se su piccola scala, parlando del bacino di un fiume come il Tagliamento, l’introduzione della trota fario avrebbe in linea di principio aumentato la diversità biologica (una specie in più) alla fine del processo il rischio è quello di avere in Europa una sola trota, perdendo a tutti gli effetti almeno tre specie, o comunque taxa, ben caratterizzati e tipici di altrettanti territori.

La tutela delle popolazioni indigene, si tratti di animali o di vegetali, è dunque un modo per conservare l’identità biologica del territorio, quell’insieme di lineamenti biologici che lo rendono unico e diverso da tutto il resto del mondo. Credo che la necessità di questa salvaguardia non possa essere messa in discussione, anche se tutt’ora la mentalità ottocentesca domina il dibattito fra biologi e utilizzatori del territorio, con questi ultimi propensi a perseverare nelle transfaunazioni.

L’identità biologica è certamente una delle ricchezze del nostro mondo, un patrimonio il cui valore reale non è neppure immaginabile, anche in termini di vantaggi diretti per l’uomo nel futuro.

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