Molto spesso mi trovo professionalmente impegnato nel tentare di comprendere, o prevedere, l’entità e la distribuzione di alcuni fenomeni naturali, sia nel tempo che nello spazio. Lavorando prevalentemente sugli ambienti acquatici montani, mi capita frequentemente di imbattermi in considerazioni piuttosto ovvie, ma non banali, sull’effetto delle precipitazioni, del gelo e della fusione della neve.
Qualche giorno fa, salendo a piedi lungo un monte delle Alpi Carniche fra quota 1380 m e 2036 m sul livello del mare, mi sono divertito a osservare la distribuzione dei colori. Il verde ormai deciso della faggeta a fondovalle, quello tenue al limite altimetrico superiore della specie, unito al verde più cupo dell’abete rosso, quindi il verde brillante delle praterie avviate verso la prima fioritura, il marrone giallastro di quelle appena emerse dalla coltre di neve, il candore dei nevai ancora presenti, poi il marrone scuro delle arenarie e degli scisti carboniferi e il grigio chiaro del calcare di scogliera devonico.

E’ stato bello soprattutto osservare su un versante esposto a E-NE le differenze di colore sui lati opposti di piccoli crinali secondari. La faccia rivolta a E già verde, quella esposta a NE ancora gialla, a parità di quota. Tutto dipende da quanta energia il Sole ha inviato a ogni porzione di superficie, insieme alla temperatura di suolo e aria, che in ogni caso hanno un legame con il Sole e la circolazione dell’aria.
Un’osservazione di questo tipo, se sporadica, ha un interesse puramente personale. Ma osservazioni fenologiche sistematiche effettuate acquisendo i dati relativi a quota, esposizione, pendenza e meteorologia consentono di elaborare modelli abbastanza affidabili relativi ai fenomeni naturali, come il germogliare dell’erba, la fioritura, la massima disponibilità di biomassa. Questi a loro volta sono elementi di conoscenza necessari per prevedere quando vi sarà la massima disponibilità di cibo per la fauna stanziale o quella migratoria. Si tratta di elaborare modelli che siano capaci di effettuare le previsioni un tempo formulate, attraverso l’esperienza, dai pastori e dai cacciatori che frequentavano questi territori. Un tipo di esperienze che è andato perduto insieme con lo spopolamento della montagna e l’abbandono delle terre alte.
Il mio interesse per queste osservazioni e per i modelli previsionali è legato a un’idea che si sviluppa nel mio pensiero da alcuni anni: trovare il modo per rendere nuovamente interessanti (economicamente) le terre alte, senza però intervenire in modo da comprometterne la capacità di rinnovare le loro numerose risorse. Si tratta di un concetto vicino a quello abusato di “sostenibilità”, spogliato dei suoi aspetti romantici e portato su un piano scientifico, sociale ed economico.
Quanto lontano può andare il pensiero guardando semplicemente un prato alpino.
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