A qualche giorno dall’ovvia presa di posizione del Presidente Trump riguardo agli Accordi di Parigi voglio fare qualche considerazione riguardo al Climate Change.
Riassunto: in questo articolo discuto non le cause ma gli effetti del cambiamento in corso, mettendo in evidenza la necessità di sviluppare nuove strategie e pratiche da adottare per ridurrne l’impatto sia sugli ecosistemi da cui dipendiamo, sia sulla nostra società e sul nostro benessere.
I politici e molti scienziati si stanno concentrando da un paio di decenni sulla correlazione fra cambiamento del clima e immissione in atmosfera di grandi quantità di biossido di carbonio, noto anche come anidride carbonica o CO2. La correlazione per alcuni è evidente, il meccanismo detto effetto serra è chiaro, per altri la correlazione non è dimostrabile e anche se l’effetto serra è un fenomeno spiegabile, non è per nulla detto che il clima evolva come previsto dai più pessimisti.
Andamento delle “anomalie” delle temperature (decadali) in base a diversi rilevamenti e stime, tratto da earthobservatory.nasa.gov
Io non voglio entrare nel merito di questa correlazione, ovvero non voglio parlare di come dovrebbe comportarsi l’umanità riguardo all’uso dei combustibili fossili, ma ragionare sul Climate Change in sé.
Che il clima stia cambiando è di un’ovvietà sconcertante. Il clima sta cambiando da decine di migliaia di anni e solo un ignorante può credere che sia invariabile. Lo avrebbero potuto pensare i nostri antenati, completamente digiuni in fatto di storia della Terra, del suo clima e dei suoi ecosistemi, ma noi no. Noi sappiamo che il clima è cambiato molte volte in passato e abbiamo sotto gli occhi le testimonianze dell’ultimo drastico cambiamento. Sappiamo anche che a ogni cambiamento del clima sono seguite estinzioni e grandi crisi, che sono state capaci di spazzare vie civiltà umane avanzate e complesse.
Dalla finestra del mio studio vedo le Prealpi Giulie, un po’ sfumate dalla consueta foschia estiva, dove qualche chiazza di neve eroicamente resiste a quote elevate. Se mi fossi trovato nel medesimo posto ventimila anni fa avrei visto un monte Canin molto simile all’attuale Hochgall, al netto del fatto che sono rocce diverse. Vedrei un grosso massiccio montuoso con grandi nevai e un paio di ghiacciai sospesi. Oggi roccia e due lingue di neve di poco conto. Sono passati solo, sottolineo solo, ventimila anni.
In termini umani sono circa 900 – 1000 generazioni e questo non è di poco conto, perché la memoria tramandata oralmente di madre in figlia perde nitidezza fino a confondersi al punto da non lasciare chiari riferimenti temporali.
Uscendo di casa potrei percorrere pochi chilometri e raggiungere il bellissimo paese di mia nonna, Gruagn (o Santa Margherita), minuscolo borgo costruito sulla sommità di una collina morenica dell’arco tilaventino. Un giorno, tanti millenni or sono, un ghiacciaio enorme lambiva quella collina e la costruiva scaricandoci sopra tonnellate di sedimenti di varia dimensione. Possenti torrenti glaciali, rombanti uscivano dal fronte di quel ghiacciaio e solcavano la pianura. Se percorro oggi la campagna friulana percepisco l’avvallamento del Cuâr e del Cormôr, appaiono quasi due rigagnoli con una valle esageratamente ampia. L’uomo costruì i suoi villaggi sulle scarpate che delimitano quei solchi fluviali, perché l’acqua era un bene prezioso, specie per i pastori e gli agricoltori della così detta civiltà dei castellieri. Qualcosa ci fa intuire che fra settemila e tremila anni fa ci fosse più acqua in quei torrenti.
Oggi cammino su una terra ghiaiosa e spesso riarsa. Il Friuli è terra piovosa, ma sempre meno e in modo sempre più impulsivo. Quando ero bambino l’inizio di giugno era la stagione delle grandi piogge e queste, unendosi alla fusione delle abbondanti nevi cadute fra febbraio e aprile, gonfiavano i fiumi fino a fare paura. Le nevicate sono diminuite progressivamente e il manto nevoso, sempre più scarso, ha iniziato a fondere ben prima della fine della primavera, lasciando monti nudi e fiumi in magra.
Non è solo il mio piccolo quadratino d’Europa ad avere vissuto una storia del genere. Ripenso ai graffiti rupestri che vidi su una parete nel Wadi Rum, una porzione di deserto montagnoso al confine fra Giordania e Arabia Saudita. Quei graffiti rappresentavano una fauna di praterie, rappresentavano la vita dei pastori. Dubito (non solo io) che un pastore si avventuri volontariamente nel torrido Wadi Rum per rappresentare su quelle rocce un paesaggio completamente diverso da quello che lo circonda, osservato altrove. Quei graffiti ci parlano di un tempo in cui il deserto era per lo meno una steppa, o una savana, insomma un ambiente con formazioni erbacee estese e acqua a disposizione per gli animali. Pare che quei graffiti siano neolitici, siamo sui diecimila anni fa. Poco distante (relativamente) sui colli che affiancano il Wadi Arabah, i resti di centri abitati che rappresentano fra i primi insediamenti umani stabili di tipo “urbano”. Siamo nella così detta “mezzaluna fertile”. Se la visitate oggi vi chiedete come sia possibile scegliere di stanziarsi in una zona così arida per fare gli agricoltori. Anche qui il cambiamento sembra essere intervenuto in modo radicale fra diecimila e cinquemila anni fa.
Non voglio dissertare su una possibile accelerazione del Climate Change dovuta all’immissione di CO2 in atmosfera da parte dell’uomo. Anche a un idiota è chiaro che modificare la composizione chimica dell’atmosfera non può essere privo di effetti, ma in questo momento voglio rimanere nell’incertezza riguardo alla correlazione fra questa variazione di concentrazione dell’anidride carbonica e il cambiamento apparentemente troppo rapido del clima. Il cambiamento è in corso ed è sufficientemente rapido da potere essere percepito da un individuo. Anche se ignorassi tutte quelle belle storie sui ghiacciai della pianura friulana, mi renderei comunque conto che, rispetto al tempo della mia infanzia, c’è meno neve, fa più caldo, aumentano le piogge violente e di breve durata. Se l’osservazione è possibile nell’arco dei miei miseri 45 anni di vita (40 di memoria) significa che il cambiamento è rapido. Troppo rapido per i miei gusti.
La domanda che mi pongo ora è: cosa stiamo facendo per adattarci? Si, avete letto bene, non sto chiedendo cosa si faccia per evitare il Climate Change, perché la questione sarebbe molto più complessa e fuori dalla mia portata. Vi sto chiedendo cosa stiamo facendo per adattarci al Climate Change in corso.
Vi faccio un esempio banale per farvi capire perché questo cambiamento ci costa molto.
In Friuli c’è una lunga fascia di sorgenti dove la falda che satura il sottosuolo della così detta Alta Pianura emerge, dando vita alle risorgive (lis risultivis in lingua friulana) e a un mosaico di ambienti acquatici che occupano la Bassa Pianura, con un contrasto molto netto rispetto al paesaggio dell’arida Alta Pianura.
Le sorgenti ci sembravano inesauribili ed eterne, la falda gigantesca. Ma qualcosa sta cambiando.
L’Alta Pianura è un po’ come un grande bidone pieno di ghiaia conficcato per metà nel terreno. Sul bidone ci sono dei forellini da cui l’acqua può uscire. Se versiamo secchi d’acqua nel nostro bidone, questa scenderà fra i sassolini della ghiaia e formerà un accumulo (la falda). Se noi versiamo molta acqua i forellini non ce la fanno a smaltirla, perché ovviamente l’acqua da qualche parte deve uscire, e il livello dentro il nostro bidone salirà, facendo uscire acqua anche dai forellini più alti, con una certa veemenza. Se rallentiamo il ritmo con cui versiamo l’acqua, o lo cambiamo, le cose andranno diversamente. Se poi praticheremo altri forellini sulla parete cambieremo il funzionamento del nostro bidone in modo sostanziale.
Quello che sta succedendo oggi è che una quantità di acqua tutto sommato non troppo inferiore a quella media del passato sta precipitando sul Friuli a secchiate più grandi. Ovvero, invece di avere piogge leggere e prolungate ed accumulo di neve invernale sui monti, tendiamo ad avere sempre più piogge violente e concentrate. Invece di scaricare nel bidone una tazza ogni minuto, stiamo scaricando un secchio ogni mezz’ora.
Il risultato è che l’acqua delle piene non ha il tempo di disperdersi nella ghiaia, scorre via lungo gli alvei fluviali dei corsi d’acqua alpini, Cellina, Meduna, Arzino, Tagliamento, Torre, Natisone, Isonzo. Corre via e va al mare caricando molto meno di un tempo il nostro grande bidone dell’Alta Pianura. In compenso dal basso noi tentiamo di estrarre più acqua, perché abbiamo cambiato radicalmente le nostre esigenze. Innanzitutto usiamo più acqua in casa e nella Bassa non ci sono acquedotti. Quasi ogni famiglia deve fare affidamento su un pozzo domestico, andando possibilmente a pescare in profondità, dove l’acqua ha una qualità decente e sale spontaneamente lungo il tubo (pozzo artesiano).
In secondo luogo abbiamo modificato l’agricoltura. Negli ultimi secoli la Bassa era caratterizzata da campi piccoli e un mosaico di colture, prati e boschi molto articolato. Era un sistema che si reggeva esclusivamente sulla grande disponibilità di acqua naturalmente presente a una profondità ridotta sotto il piano della campagna. Nel XIX e XX secolo abbiamo provveduto a prosciugare la maggior parte degli ambienti palustri, abbiamo trasformato i piccoli campi in campi più grandi adatti alla meccanizzazione, abbiamo ridotto quasi a zero le zone gestite a prato da sfalcio convertendo anche quelle a campo intensivo ed abbiamo scelto di coltivare molto mais. Una pianta che ha bisogno di molta acqua, in un ambiente ricco di acqua ci stava benissimo! Nello stesso tempo abbiamo avviato una fiorente attività di piscicoltura in tutta la pianura, costruendo impianti di allevamento ittico a decine, in particolare specializzandoci nell’allevamento delle trote. Questi pesci hanno bisogno di acqua pulita, fresca e ricca di ossigeno, cosa che i fiumi di risorgiva garantivano gratuitamente (al netto di canoni di concessione) fino a un paio di decenni or sono.
Abbiamo impostato le nostre attività produttive facendo affidamento su grandi quantità di acqua, di qualità eccellente, in un periodo di cambiamento climatico e questo ci sta mettendo in difficoltà. Oggi dobbiamo terebrare sempre più pozzi, cercare l’acqua in profondità, evitare gli strati più superficiali dove la percolazione ha portato tutte le sostanze che scarichiamo sul suolo (dagli scarichi domestici ai trattamenti fitosanitari), ma da monte arriva sempre meno acqua.
Il livello delle falde è calato progressivamente fra la fine degli anni 1990 e il primo decennio del XXI secolo. L’ho visto accadere e documentato.
Un giorno, nel 2005, dovetti andare a scattare una foto nella parte superiore del fiume Varmo, per inserirla in una pubblicazione multimediale che stavo realizzando insieme alle colleghe dell’Università di Trieste. Avevamo raccolto i dati sulla fauna ittica di quel posto pochi anni prima, ma non trovavamo le fotografie adatte. Quando arrivai mi trovai di fronte un letto asciutto, occupato da un po’ di vegetazione erbacea “pioniera”. Dove fino a pochi anni prima c’era una comunità di pesci e invertebrati stabile e complessa, ora si trovava un ambiente terrestre. Le cose andarono sempre peggio fino alla fine del primo decennio del secolo, quando un paio di annate buone fecero risalire il livello della falda, dandoci l’illusione che tutto si sarebbbe aggiustato.
Da due anni stiamo assistendo a una scarsità di precipitazioni autunnali e di nevicate che è preoccupante. Oggi siamo il 14 giugno, un tempo periodo di morbide e piene per i fiumi, ma sto osservando una precoce magra estiva in molti corsi d’acqua. Le temperature salgono, la corrente diminuisce e con essa la profondità dell’acqua, le alghe hanno già iniziato a svilupparsi rapidamente e gli animali acquatici legati al vecchio regime sono in difficoltà.
Questa situazione sta mettendo in difficoltà sia l’agricoltura che la piscicoltura, dato che i presupposti su cui si basa il sistema produttivo di successo impostato trent’anni fa sono venuti meno. I costi che un’azienda deve sostenere oggi per compensare gli effetti del Climate Change sono rilevanti, anche se le stime relative vengono considerate di scarso interesse sia dal pubblico che da politici e amministratori; un apparente disinteresse che ci impedisce di affrontare seriamente il problema e trovare soluzioni.
Quello che osservo, in Friuli e in Italia, è un generico senso di estraniazione rispetto al problema dell’adattamento al Climate Change. Alcuni esperti hanno richiamato l’attenzione su questo tema, ma come spesso accade non si è andati oltre le tavole rotonde e i discorsi accademici. La realtà che abbiamo di fronte richiede di valutare attentamente le strategie e le pratiche locali da mettere in atto per consentirci di continuarea a produrre e conservare i frammenti di naturalità che quest’area dell’Europa Meridionale ospita. Molti sono tentati da una posizione considerata “pratica e pragmatica” che tende a privilegiare il punto di vista dell’agricoltura, dell’acquacoltura e della gestione dei rischi idraulici, ritenendo antitetica la necessità (non percepita dalla società) di conservare ecosistemi e specie apparentemente “inutili”. Purtroppo per noi tutti questi aspetti del mondo in cui viviamo sono legati fra loro e ogni perturbazione di un dato fattore ne produce in altri, quasi sempre imprevedibili per qualità e dimensione.
Questo atteggiamento da struzzo che infila la testa sotto la sabbia viene aggravato da una generalizzata mancanza di conoscenza dei fenomeni naturali. I cittadini italiani sanno poco di natura, clima, ecologia, ma sono stati indotti, da un sistema scolastico concentrato su cultura umanistica e tecnica applicata, a ritenere che sia sufficiente volere bene al proprio gatto e costruire pompe più potenti per salvare il mondo. Il mondo, mi dispiace dirlo, si è sempre salvato da sé e lo farà anche questa volta. Ma se vogliamo salvare noi stessi, ovvero la nostra società e mantenere almeno in parte il nostro stile di vita, dobbiamo guardare in faccia la realtà e prendere subito delle decisioni, usando le conoscenze disponibili (scienza) e tutto l’ingegno di cui la nostra specie è dotata.
agosto 12, 2017 alle 11:56 am |
[…] Poco tempo fa ne ho scritto sul mio blog “più scientifico” in un articolo intitolato Adattarsi. […]