Non si tratta di una metafora. Il formaggio è oggettivamente un sistema dove convivono e interagiscono un gran numero di organismi, in una “matrice” complessa di composti organici.

Batteri, lieviti e “muffe” sono gli organismi senza cui è impossibile ottenere un formaggio degno di questo nome. Forse non tutti sanno esattamente cosa stiano mangiando, quando affrontano un formaggio, ma state certi che non è semplicemente del latte “solidificato e lasciato seccare” un po’.
Consideriamo la materia prima: il latte. E’ evidentemente il prodotto di un organismo vivente, una miscela quasi omogenea di acqua, proteine, sali, grassi. Tutto ciò che serve a nutrire un mammifero neonato. Il latte vaccino non è uguale a quello ovino, né a quello caprino. Neanche parliamo di quello equino. Il latte oltre tutto è sterile, nel momento in cui esce dalla mammella, ma viene subito contaminato più o meno da microorganismi, a seconda di come si comporta chi munge. Un vitello o un agnello in realtà accedono a latte piuttosto “pulito”, ma considerate che vacche, pecore e capre non dispongono di un bidet e il loro orifizio anale si trova in alto, sopra le mammelle che sono piuttosto arretrate. Inoltre questi animali hanno l’abitudine di distendersi per fare una pausa e ruminare in santa pace, cosa che porta le mammelle a contatto con l’erba. E’ facile intuire come il latte venga colonizzato da vari organismi.
Questi organismi tuttavia non devono farci “paura”, perché sono proprio loro ad avere aiutato l’uomo nel corso dei millenni, trasformando le componenti del latte in un modo che noi umani non saremmo stati capaci di immaginare. Per gli appassionati di formaggi e arte casearia tutto questo è ovvio, per i consumatori meno informati invece vale la pena andare oltre questa riga.
Il latte come sapete è liquido. Il formaggio è un solido, più o meno morbido, ma solido. Per passare da uno stato all’altro bisogna fare in modo che il latte cagli. Con questo termine si intende la trasformazione macroscopica del liquido in una specie di massa gelatinosa, che ricorda molto un budino. A livello microscopico, per ottenere questo risultato è necessario modificare le proteine presenti nel latte e fare sì che queste si organizzino formando un reticolo, che ingloberà tutte le altre molecole presenti e darà struttura a questa specie di budino, detto “cagliata”. La trasformazione delle proteine si può fare in vari modi, ma nella caseificazione i due più usati sono attraverso l’intervento di enzimi o un aumento dell’acidità del latte. In entrambi i casi qualcosa cambia nella forma o dimensione delle proteine e queste non riescono più a rimanere in soluzione nell’acqua (gran parte del latte è acqua).
Non sto a tediarvi con questioni da biochimici, relative a come gli enzimi taglino le proteine o la diminuzione di pH modifichi la loro struttura terziaria cambiando la carica dei residui aminoacidici, il miracolo della cagliata avviene e vi trovate di fronte a questo “budino”, che tende a espellere acqua, ma fatica a liberarsi di quella che si trova dentro la massa. Per aiutarlo il casaro pratica dei tagli e favorisce la fuoriuscita di acqua, delle proteine ancora in soluzione e di un gran numero di altre molecole. Ciò che resta dopo un po’ è una massa più compatta, che inizia ad assomigliare a un formaggio spalmabile. Ma non è ancora formaggio.
A farlo diventare tale non è semplicemente la perdita di acqua, ma l’azione combinata di un numero impressionante di organismi microscopici. Penso che tutti abbiate ormai confidenza con i nomi di batteri riportati sulle confezioni di yogurt. Ebbene, quei batteri o dei loro parenti, intervengono iniziando a usare gli zuccheri, le proteine e i grassi presenti nel latte, dunque nella cagliata. Questi organismi usano le molecole disponibili, le fanno a pezzi, ricavano energia e materia utile per vivere, lasciano dietro a sé i prodotti che definiremmo di scarto. A noi umani piacciono molto i prodotti di scarto del metabolismo dei microorganismi. A parte formaggio, yogurt e altri derivati del latte, ricordiamoci sempre che l’inebriante alcol etilico presente in vino, birra, idromele e altre bevande è nient’altro che il prodotto del metabolismo di microorganismi. In quel caso lieviti. Gli stessi lieviti che producono gas e fanno gonfiare un impasto di acqua e farina, consentendoci di ottenere un pane che non abbia la consistenza di un mattone.
Voglio farvela corta: a seconda di quali microorganismi colonizzano la cagliata durante la lavorazione, otterremo formaggi diversi. Ovviamente la colonizzazione può essere gestita, favorendo alcuni microorganismi e sfavorendone altri, introducendoli di proposito e trattando il latte in modo da ridurre o annullare la presenza di quelli “selvatici”. Proprio questo è il motivo per cui quella del casaro è una vera arte: ogni azione compiuta, dalla mungitura alla fine della stagionatura, modifica il risultato finale. Che può essere straordinariamente piacevole o una schifezza immangiabile.
A me piace molto il formaggio e tre anni fa ho iniziato a fare esperimenti di caseificazione domestica, usando il latte a buon prezzo che veniva distribuito da un’azienda delle mie parti (Friuli). Non mi buttai a capofitto facendo cose a caso, ma provai a studiare un po’ di principi dell’arte casearia, acquistai del caglio bovino e mi misi all’opera con l’assistenza di mia moglie. Nessuno dei formaggi che abbiamo prodotto era cattivo e solamente uno è risultato insapore come quelli economici che si comprano al supermercato. In quel caso avevamo sterilizzato il latte. In tutti gli altri casi ho favorito l’attività batterica e qualche volta ho immesso nel latte la pasta di un formaggio già maturato. Non è questa la soluzione ideale, perché la comunità di organismi che popolano il formaggio cambia durante la maturazione e la stagionatura, per cui un formaggio “pronto” non avrà gli stessi batteri di uno a inizio maturazione, ma un po’ di forme di resistenza ci sono sempre e le condizioni indotte sono state sufficienti.
Queste esperienze mi hanno dato molta soddisfazione, ma soprattutto mi hanno confermato i sospetti relativi ai processi produttivi dei formaggi insapori che trovano (purtroppo) ampio spazio sul mercato. Il problema è che fare un formaggio buono e saporito, ben maturato e stagionato, richiede molta cura, molte operazioni. Non basta aggiungere la bustina “magica” di fermenti selezionati, bisogna fare in modo che il loro ecosistema abbia le caratteristiche giuste, per farli prosperare e lavorare nel modo desiderato. Tutti i microorganismi sono bravissimi a tirare fuori energia dalla materia organica, in tante condizioni diverse, ma a seconda della situazione prediligono un metodo rispetto a un altro e i prodotti di scarto cambiano. Proprio quei prodotti di scarto che danno il sapore al formaggio.
Una volta ho acquistato un formaggio erborinato, da un’azienda che non cito per pudore. Effettivamente all’interno c’erano delle bolle in cui si era sviluppata Penicillium roqueforti, la muffa del Gorgonzola, del Roquefort, dello Stilton. Ma per il resto, il formaggio non sapeva di nulla. Pareva che non fosse maturato, era di pasta gommosa e dal sapore più simile al latte che a un formaggio. In sostanza, chi aveva preparato quell’erborinato non aveva per nulla fatto maturare il formaggio. Costava poco, ma valeva nulla.
Quando acquistate un formaggio a 6 – 8 €/kg e ha consistenza e sapore della plastica, sappiate che è del tutto normale. Per ottenere qualcosa di meglio è necessario compiere molte operazioni, che richiedono tempo e personale, dunque un aumento dei costi. Fare cagliare del latte, inoculare un po’ di fermenti e mettere a maturare in cella facendo il minimo indispensabile, su grandi quantità, fa uscire dall’azienda il formaggio a un prezzo molto basso, ma se avete il senso del gusto, ricordatevi che il formaggio è un ecosistema e per ottenere qualcosa di buono bisogna avere una grande cura nel creare le condizioni per fare lavorare bene i microorganismi.
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