Molto spesso chi non si occupa di scienze naturali chiede: “questo animale a cosa serve?“. Molti naturalisti si incavolano e non rispondono. Io in genere dico la verità: non sempre lo sappiamo, ma se esiste ha certamente un funzione.
Osserviamo dei sistemi estremamente complessi, come fossero enormi meccanismi pieni di ingranaggi, pulegge e cinghie, costruiti secondo il criterio della massima economia. C’è solo l’essenziale per il funzionamento della macchina, il superfluo non può esistere. Ogni µg di carbonio deve essere usato, ogni mJ di energia deve essere usato.
Per gran parte degli umani questo è assurdo, perché l’utilità è soggettiva: deve essere utile agli umani stessi, non avere una funzione qualunque. Ad esempio le zanzare non servono a nulla, anzi danno fastidio. E le zecche? E le vipere? Egli orsi? E la gramigna? Ah no, aspetta, con la gramigna (Cynodon dactylon (L.) Pers., 1805) si fanno decotti “depurativi”. Cosa cactus significhi “depurativo” non l’hanno ancora capito medici e biologi, ma c’è un certo mercato di questo genere di prodotti. Ecco, dunque la gramigna è utile! Ma non lo era per i nostri bisnonni, che se la trovavano fra i piedi e riduceva per competizione la produttività dei campi di altre Poaceae, ad esempio grano e orzo, oppure infestava l’orto sottraendo nutrienti alle piante utili (per loro). Dunque la gramigna è diventata utile, ma un tempo non lo era. Come ha fatto a cambiare? Si è evoluta? No, semplicemente noi umani abbiamo ideato un modo per usarla.
Alcuni Hymenoptera vengono percepiti come utili.
Le api! Se si estinguessero le api ci estingueremmo tutti. È un’affermazione perentoria, attribuita spesso a vari personaggi famosi più o meno connessi all’ambito scientifico, del tutto priva di senso e falsa. Il punto è che le api sono considerate utili da noi umani perché riconosciamo loro almeno due funzioni importanti.
Nel giorno in cui si celebra “Sa die de sa Sardigna” (il Giorno della Sardegna) in ricordo della ribellione contro la dominazione piemontese sull’Isola, vi mostro un paio di specie di piante che rientrano evidentemente nella categoria che qui viene definita “sos istranzos”, ovvero gli stranieri.
Acacia saligna è una specie di origine australiana, con bellissimi gruppi di infiorescenze globose di colore giallo che ricordano quelle della mimosa ornamentale (Acacia dealbata). Questo esemplare è stato fotografato nel Sud dell’Isola, precisamente poco distante dalla celebre località balneare di Chia, dove concorre a formare una boscaglia mista in cui risulta talvolta decisamente dominante. Poco distante da questa ho trovato alcune piante di Casuarina equisetifolia, specie il cui areale di origine si trova attorno all’Oceano Indiano e parte di quello Pacifico. Vidi quest’ultima specie per la prima volta sull’isola di Reunion, in Oceano Indiano, e l’ho ritrovata qui in mezzo al Mediterraneo.
Acacia saligna, gruppo di infiorescenze e foglie
Sono due esempi di specie introdotte, che fanno evidentemente ormai parte del paesaggio sardo, ma che nulla hanno a che vedere con la flora locale. Accanto ad esse si osservano spesso impianti di Eucalyptus sp. e non mancano nella letteratura tecnica e divulgativa riferimenti alla loro funzione di piante “pioniere” e “stabilizzatrici”, spesso in riferimento alla capacità di contribuire alla stabilità delle dune costiere. Sulla necessità di usare specie alloctone a questo scopo discuteremo in un prossimo articolo.
La loro presenza ha alterato evidentemente la biodiversità locale, ma se non ne parliamo fra ecologi potremmo finire per dovere discutere sul fatto che introdurre specie aumenti la biodiversità, intesa come numero di specie diverse presenti in un dato territorio. Questa conclusione sarebbe corretta se le specie introdotte si inserissero senza prendere il posto, o senza interferire con la presenza di quelle indigene. Questo non accade mai, semplicemente perché l’introduzione di nuove specie determina una modificazione nel sistema. È come aggiungere un ingranaggio a una macchina e pretendere che funzioni come prima soltanto perché si è incastrato per bene.
Più evidente è l’alterazione di ciò che chiamo labioidentità (o identità biologica) del territorio. Il concetto di bioidentità in letteratura viene riferito prevalentemente, se non esclusivamente, all’identità dell’individuo e al suo corredo genetico unico, mentre da ecologo la riferisco all’ecosistema. La composizione in specie della componente biotica di un ecosistema, in particolare, è una caratteristica distintiva, esattamente come per noi lo è la combinazione di caratteri morfologici (colore di capelli e occhi, forma del naso ecc) che ci permette di distinguere al primo sguardo un individuo dall’altro.
Ho letto le dichiarazioni di Carlo Papi, padre di Andrea, ucciso dall’orsa Jj4 in Trentino mentre correva nei boschi.
Ciò che ha detto Papi, pur in un momento di dolore che fatico persino ad immaginare (perdere un figlio!), è molto vero, misurato e intelligente. Riporto dall’articolo pubblicato su Open Online:
Perché secondo lui la morte di Andrea «si poteva evitare. Le istituzioni non hanno fatto niente per spiegare alla gente come comportarsi con un numero così alto di orsi: cosa fare per prevenire incontri, quali zone non frequentare, come reagire a un attacco. Hanno lasciato tutti ignoranti e tranquilli, senza nemmeno installare i cassonetti anti-orso in tutti i paesi a rischio».
Qui c’è ciò che dovremmo incorniciare e diffondere fra tutti i cittadini. Non esiste uno steccato che separa l’ambito umano da quello della “natura”. I boschi non sono uno zoo, i paesi e le città non sono isole. Gli umani fanno parte degli ecosistemi esattamente come gli orsi, gli scoiattoli, i coleotteri. Solo che gli umani sono molto bravi a modificare gli ecosistemi in brevissimo tempo. Non che gli altri organismi siano incapaci di farlo, ma gli umani sono veloci e possono decidere. Possono decidere! È il famoso intelletto di cui ci vantiamo tanto.
Quando ero giovane e studiavo biologia all’Università, una parte dei miei insegnanti era di quella che definisco oggi la “vecchia scuola”, con in mente una netta divisione fra ambito umano e ambito naturale ed un approccio riduzionistico all’ecologia. Altri invece avevano un approccio olistico. Badate bene, in Ecologia il termine olistico non ha significato coincidente con quello della stessa parola usata in ambiti non scientifici (più o meno a sproposito). Significa che non si considera un elemento del sistema alla volta, ma si riconosce che ciascuno di essi interagisce con gli altri influenzandone il funzionamento e l’esistenza stessa.
Dunque, per me e per molti altri ecologi, gli umani sono parte del sistema e bisogna tenerne conto. Quindi non basta sapere di avere nel complesso una certa superficie di habitat classificati idonei all’orso, ma anche sapere quale sia la dimensione delle singole particelle di habitat disponibile, quanto siano distanti le une dalle altre, come siano connesse, con quali altri particelle confinino, come e quanto gli umani usino quelle aree, quali altre specie o caratteristiche morfologiche e geologiche abbia l’area da grande a piccola scala.
Voi mi direte che sicuramente chi ha elaborato il piano per la reintroduzione degli orsi in Trentino ha tenuto conto di tutte queste cose. Non l’ho letto, ma suppongo che sia così.
Cito dal sito web del progetto LIFE Ursus: I risultati sono incoraggianti: circa 1700 km2 risultano essere idonei alla presenza dell’orso e più del 70% degli abitanti si sono detti a favore del rilascio di orsi nell’area.
Il punto però sta in quello che dice Carlo Papi: bisogna preparare gli umani al cambiamento!
Innanzitutto si informano gli umani, in modo chiaro. Nel caso della reintroduzione dell’orso bisogna mettere sul tavolo chiaramente quali sono le possibili interazioni fra quella specie e la nostra. È fondamentale. Alcuni miei colleghi, impegnati nella conservazione della biodiversità, credono che questo non sia importante, perché abbiamo una sacra missione: tutelare o ripristinare la biodiversità. La sacra missione prevede, in questo approccio, di fregarsene di cosa pensino i brutti, ignoranti e pidocchiosi umani. L’approccio è totalmente sbagliato, lo dirò a sfinimento. Noi scienziati non siamo divinità, siamo quelli che hanno il compito di comprendere il funzionamento dell’Universo e spiegarlo a tutti gli altri. Spiegarlo a tutti gli altri.
Prima di reintrodurre qualunque specie ci sono una serie di passaggi necessari, ciascuno di essi deve essere propedeutico al successivo, con un meccanismo di controllo: se non si supera un passaggio, non si va avanti. È naturale e logico. Dunque si parte valutando se le caratteristiche morfologiche, geografiche, ecologiche di un certo territorio siano adeguate per pensare a una reintroduzione, quindi si valutano i motivi della scomparsa di una specie e ci si chiede: le cause sono state rimosse? Se si, si procede, se no bisogna operare innanzitutto per rimuovere le cause della scomparsa. Esiste un modo per rimuovere le cause della scomparsa? Se si, si prosegue nella progettazione, se no ci si ferma. È economicamente e socialmente fattibile la rimozione delle cause di scomparsa della specie? Se si, si progetta tenendone conto, se no ci si ferma. Questa è la Via.
Uno di questi passaggi è fare accettare in modo consapevole la specie agli umani. Perché le azioni che non siano comprese, accettate e sostenute dalla comunità che vive in una certa area, o da coloro che la frequentano temporaneamente, non possono avere successo. Il trucchetto di non spiegare per bene le cose, per paura che “la gente” si opponga o si metta di traverso, è controproducente. È necessario avere l’appoggio della gente. Il fatto che questa gente non abbia tutte le conoscenze necessarie non è ostativo, è compito nostro fornirle in modo semplice e chiaro. Io non so nulla di cardiochirurgia, ma se mi spiegassero che ho la valvola mitralica fatta male e l’unico modo per salvarmi la vita è operare e sostituirla, pur continuando a non capire nulla di cardiochirurgia, sarei ben felice di dare il mio consenso all’operazione. Non so nemmeno nulla di ingegneria civile, ma se mi dicono che bisogna spendere 10 milioni per costruire un ponte in modo che sia sufficientemente robusto e regga in caso di alluvione, vento forte, terremoto ecc, io concordo sulla sua costruzione. Se mi dicono che è bellissima l’idea di costruire un ponte, omettendo un sacco di informazioni, io posso pure cascarci, ma qualora dovesse cascare pure il ponte mi arrabbierei parecchio. Specie se nel disastro morisse un mio familiare.
Ecco, il signor Papi ci spiega chiaramente che lui e gli altri abitanti del Trentino, compreso il suo povero figlio, non hanno ricevuto informazioni e formazione sufficiente per affrontare in modo consapevole la convivenza con un animale grande e grosso, potenzialmente molto più pericoloso di uno scoiattolo, ma trattato come fosse tale.
Dovremmo riflettere e imparare dalle parole di Carlo Papi, anche noi professionisti del campo ambientale.
Sono stato coinvolto nella realizzazione di un podcast, realizzato da Legambiente FVG, nell’ambito di una serie che riguarda il fiume Tagliamento. Di questo fiume ho scritto diverse volte, ma in questo caso potete ascoltare cosa ho raccontato durante una intervista – chiacchierata con Elisa Baioni. Non potete ascoltare il dopo intervista che è stata un’interessantissima chiacchierata su scienza, divulgazione, epistemologia e percezione umana del “mondo”. Chi mi conosce sa cosa succede quando qualcuno mi accende. Poi tocca trovare il tasto “arresto di emergenza”.
Confesso che, avendo studiato Biologia, ho sempre provato un grande fastidio per l’uso comune e scriteriato delle parole che contengono bio- ed eco-. Ad esempio c’è l’agricoltura biologica. E cosa cavolo vuoi che sia? Ogni pianta è un vivente, è biologica per principio!
In realtà per biologico non si intende il prodotto, ma il processo produttivo. Uno a questo punto immagina che qualcosa di bio sia prodotto di processi esclusivamente biologici. Ma così non è, perché in base alla norma italiana ed europea, nel processo produttivo può entrare qualcosa che non è biologico. Ovvero? Esiste una limitazione nella lista di sostanze che possono essere usate in campo e fuori, ma questa lista limitata continua a comprendere sostanze di sintesi. Ne viene limitato il dosaggio, cosa molto importante, ma non azzerato.
Qual è la sfida? Dai che non sono agronomo, la metto in termini più consoni a un ecologo: creare condizioni che siano favorevoli alla specie coltivata ma sfavorevoli alle altre. In passato non si andava tanto per il sottile, se c’erano le “erbacce”, si irrorava con erbicidi. Si usavano insetticidi, anticrittogamici e via dicendo.
L’agricoltura “tradizionale” aveva come scopo la creazione di un sistema a biodiversità zero. Perché gli agricoltori credevamo che una specie, quella coltivata, potesse vivere da sola, sufficiente a sé stessa.
Nel corso del tempo la conoscenza della vita è aumentata e con essa la consapevolezza del fatto che nessun organismo di nostro interesse sia autosufficiente e che le condizioni migliori, per noi consumatori, si ottengono quando più specie concorrono a creare un sistema.
Sfortunatamente la mentalità antica è ancora fortemente radicata. Mi capita di incontrare agronomi più giovani di me che non accettano un punto di vista distante da quello dei loro nonni. A parole sembrano convinti di essere professori di modernità, ma parlando con loro emerge la mentalità di fondo che ha guidato l’umanità negli ultimi 10.000 anni circa. La stessa con cui mi confronto quando parlo con alcuni colleghi che si occupano di gestione della fauna.
Il punto è che fra l’inizio della domesticazione delle piante e il XIX secolo circa, non era possibile altro che un’agricoltura biologica, se non biodinamica. La vera agricoltura tradizionale, quella che ha almeno cento secoli di storia, è stata fatta con la zappa, aratro trainato da animali, letame e al massimo qualche insetticida ottenuto da altre piante. Non erano convinti bio-, semplicemente non avevano altro a disposizione. Sulle viti si usava solo tintura bordolese, perché non c’era altro! Appena furono disponibili prodotti di sintesi molto efficaci e mezzi per usarli (vedi atomizzatori) gli agricoltori presero a usarli con entusiasmo, convinti di potersi finalmente liberare dalla schiavitù dei processi naturali. Illusione che potevano avere perché non conoscevano molto della vita e di come funziona.
Oggi? Abbiamo molte più conoscenze, collettivamente. L’umanità ha a disposizione conoscenze che non lo erano nei cento secoli di agricoltura passati, ma non sono conoscenze diffuse. Notate bene, non è questione limitata a una categoria: ci sono migliaia di biologi che sono preparatissimi se si parla di enzimi o di DNA, ma non hanno ben chiaro come funzioni un ecosistema. Questo fa sì che, nella realtà, gran parte degli imprenditori agricoli e dei consumatori abbia in mente molti miti, si lasci trasportare dalle illusioni, ma nella sostanza continui a ragionare come hanno fatto i nostri antenati per decine di secoli.
Ad ogni modo, caro abitante di Vega, qualunque campo, pure quello condotto con metodi biodinamici, è molto lontano dalla foresta che avrebbe dovuto essere lì.