Nel giorno in cui si celebra “Sa die de sa Sardigna” (il Giorno della Sardegna) in ricordo della ribellione contro la dominazione piemontese sull’Isola, vi mostro un paio di specie di piante che rientrano evidentemente nella categoria che qui viene definita “sos istranzos”, ovvero gli stranieri.
Acacia saligna è una specie di origine australiana, con bellissimi gruppi di infiorescenze globose di colore giallo che ricordano quelle della mimosa ornamentale (Acacia dealbata). Questo esemplare è stato fotografato nel Sud dell’Isola, precisamente poco distante dalla celebre località balneare di Chia, dove concorre a formare una boscaglia mista in cui risulta talvolta decisamente dominante. Poco distante da questa ho trovato alcune piante di Casuarina equisetifolia, specie il cui areale di origine si trova attorno all’Oceano Indiano e parte di quello Pacifico. Vidi quest’ultima specie per la prima volta sull’isola di Reunion, in Oceano Indiano, e l’ho ritrovata qui in mezzo al Mediterraneo.
Acacia saligna, gruppo di infiorescenze e foglie
Sono due esempi di specie introdotte, che fanno evidentemente ormai parte del paesaggio sardo, ma che nulla hanno a che vedere con la flora locale. Accanto ad esse si osservano spesso impianti di Eucalyptus sp. e non mancano nella letteratura tecnica e divulgativa riferimenti alla loro funzione di piante “pioniere” e “stabilizzatrici”, spesso in riferimento alla capacità di contribuire alla stabilità delle dune costiere. Sulla necessità di usare specie alloctone a questo scopo discuteremo in un prossimo articolo.
La loro presenza ha alterato evidentemente la biodiversità locale, ma se non ne parliamo fra ecologi potremmo finire per dovere discutere sul fatto che introdurre specie aumenti la biodiversità, intesa come numero di specie diverse presenti in un dato territorio. Questa conclusione sarebbe corretta se le specie introdotte si inserissero senza prendere il posto, o senza interferire con la presenza di quelle indigene. Questo non accade mai, semplicemente perché l’introduzione di nuove specie determina una modificazione nel sistema. È come aggiungere un ingranaggio a una macchina e pretendere che funzioni come prima soltanto perché si è incastrato per bene.
Più evidente è l’alterazione di ciò che chiamo labioidentità (o identità biologica) del territorio. Il concetto di bioidentità in letteratura viene riferito prevalentemente, se non esclusivamente, all’identità dell’individuo e al suo corredo genetico unico, mentre da ecologo la riferisco all’ecosistema. La composizione in specie della componente biotica di un ecosistema, in particolare, è una caratteristica distintiva, esattamente come per noi lo è la combinazione di caratteri morfologici (colore di capelli e occhi, forma del naso ecc) che ci permette di distinguere al primo sguardo un individuo dall’altro.
Ho letto le dichiarazioni di Carlo Papi, padre di Andrea, ucciso dall’orsa Jj4 in Trentino mentre correva nei boschi.
Ciò che ha detto Papi, pur in un momento di dolore che fatico persino ad immaginare (perdere un figlio!), è molto vero, misurato e intelligente. Riporto dall’articolo pubblicato su Open Online:
Perché secondo lui la morte di Andrea «si poteva evitare. Le istituzioni non hanno fatto niente per spiegare alla gente come comportarsi con un numero così alto di orsi: cosa fare per prevenire incontri, quali zone non frequentare, come reagire a un attacco. Hanno lasciato tutti ignoranti e tranquilli, senza nemmeno installare i cassonetti anti-orso in tutti i paesi a rischio».
Qui c’è ciò che dovremmo incorniciare e diffondere fra tutti i cittadini. Non esiste uno steccato che separa l’ambito umano da quello della “natura”. I boschi non sono uno zoo, i paesi e le città non sono isole. Gli umani fanno parte degli ecosistemi esattamente come gli orsi, gli scoiattoli, i coleotteri. Solo che gli umani sono molto bravi a modificare gli ecosistemi in brevissimo tempo. Non che gli altri organismi siano incapaci di farlo, ma gli umani sono veloci e possono decidere. Possono decidere! È il famoso intelletto di cui ci vantiamo tanto.
Quando ero giovane e studiavo biologia all’Università, una parte dei miei insegnanti era di quella che definisco oggi la “vecchia scuola”, con in mente una netta divisione fra ambito umano e ambito naturale ed un approccio riduzionistico all’ecologia. Altri invece avevano un approccio olistico. Badate bene, in Ecologia il termine olistico non ha significato coincidente con quello della stessa parola usata in ambiti non scientifici (più o meno a sproposito). Significa che non si considera un elemento del sistema alla volta, ma si riconosce che ciascuno di essi interagisce con gli altri influenzandone il funzionamento e l’esistenza stessa.
Dunque, per me e per molti altri ecologi, gli umani sono parte del sistema e bisogna tenerne conto. Quindi non basta sapere di avere nel complesso una certa superficie di habitat classificati idonei all’orso, ma anche sapere quale sia la dimensione delle singole particelle di habitat disponibile, quanto siano distanti le une dalle altre, come siano connesse, con quali altri particelle confinino, come e quanto gli umani usino quelle aree, quali altre specie o caratteristiche morfologiche e geologiche abbia l’area da grande a piccola scala.
Voi mi direte che sicuramente chi ha elaborato il piano per la reintroduzione degli orsi in Trentino ha tenuto conto di tutte queste cose. Non l’ho letto, ma suppongo che sia così.
Cito dal sito web del progetto LIFE Ursus: I risultati sono incoraggianti: circa 1700 km2 risultano essere idonei alla presenza dell’orso e più del 70% degli abitanti si sono detti a favore del rilascio di orsi nell’area.
Il punto però sta in quello che dice Carlo Papi: bisogna preparare gli umani al cambiamento!
Innanzitutto si informano gli umani, in modo chiaro. Nel caso della reintroduzione dell’orso bisogna mettere sul tavolo chiaramente quali sono le possibili interazioni fra quella specie e la nostra. È fondamentale. Alcuni miei colleghi, impegnati nella conservazione della biodiversità, credono che questo non sia importante, perché abbiamo una sacra missione: tutelare o ripristinare la biodiversità. La sacra missione prevede, in questo approccio, di fregarsene di cosa pensino i brutti, ignoranti e pidocchiosi umani. L’approccio è totalmente sbagliato, lo dirò a sfinimento. Noi scienziati non siamo divinità, siamo quelli che hanno il compito di comprendere il funzionamento dell’Universo e spiegarlo a tutti gli altri. Spiegarlo a tutti gli altri.
Prima di reintrodurre qualunque specie ci sono una serie di passaggi necessari, ciascuno di essi deve essere propedeutico al successivo, con un meccanismo di controllo: se non si supera un passaggio, non si va avanti. È naturale e logico. Dunque si parte valutando se le caratteristiche morfologiche, geografiche, ecologiche di un certo territorio siano adeguate per pensare a una reintroduzione, quindi si valutano i motivi della scomparsa di una specie e ci si chiede: le cause sono state rimosse? Se si, si procede, se no bisogna operare innanzitutto per rimuovere le cause della scomparsa. Esiste un modo per rimuovere le cause della scomparsa? Se si, si prosegue nella progettazione, se no ci si ferma. È economicamente e socialmente fattibile la rimozione delle cause di scomparsa della specie? Se si, si progetta tenendone conto, se no ci si ferma. Questa è la Via.
Uno di questi passaggi è fare accettare in modo consapevole la specie agli umani. Perché le azioni che non siano comprese, accettate e sostenute dalla comunità che vive in una certa area, o da coloro che la frequentano temporaneamente, non possono avere successo. Il trucchetto di non spiegare per bene le cose, per paura che “la gente” si opponga o si metta di traverso, è controproducente. È necessario avere l’appoggio della gente. Il fatto che questa gente non abbia tutte le conoscenze necessarie non è ostativo, è compito nostro fornirle in modo semplice e chiaro. Io non so nulla di cardiochirurgia, ma se mi spiegassero che ho la valvola mitralica fatta male e l’unico modo per salvarmi la vita è operare e sostituirla, pur continuando a non capire nulla di cardiochirurgia, sarei ben felice di dare il mio consenso all’operazione. Non so nemmeno nulla di ingegneria civile, ma se mi dicono che bisogna spendere 10 milioni per costruire un ponte in modo che sia sufficientemente robusto e regga in caso di alluvione, vento forte, terremoto ecc, io concordo sulla sua costruzione. Se mi dicono che è bellissima l’idea di costruire un ponte, omettendo un sacco di informazioni, io posso pure cascarci, ma qualora dovesse cascare pure il ponte mi arrabbierei parecchio. Specie se nel disastro morisse un mio familiare.
Ecco, il signor Papi ci spiega chiaramente che lui e gli altri abitanti del Trentino, compreso il suo povero figlio, non hanno ricevuto informazioni e formazione sufficiente per affrontare in modo consapevole la convivenza con un animale grande e grosso, potenzialmente molto più pericoloso di uno scoiattolo, ma trattato come fosse tale.
Dovremmo riflettere e imparare dalle parole di Carlo Papi, anche noi professionisti del campo ambientale.
Non lo sappiamo, ma possiamo dare un’occhiata a quello che è successo finora
Per motivi legati al mio lavoro mi sono trovato a studiare la serie storica di dati pluviometrici della stazione meteorologica di Fagagna (UD) messi a disposizione sul sito MeteoFVG – ARPA FVG (vedi qui). Ho scaricato i dati relativi alle piogge cumulate decadali, ovvero su periodo di 10 giorni. Questo mi ha permesso di suddividere le precipitazioni nelle stagioni astronomiche e fare iniziare ogni periodo di analisi con un equinozio autunnale e terminare con quello dell’anno successivo. Perché non ho usato l’anno solare? Perché nella mia esperienza in Friuli i periodi meno piovosi sono quello invernale e quello estivo, ma la fine del ciclo per ciò che mi interessa (organismi acquatici) coincide in genere con la fine dell’estate. Questo vale anche per organismi terrestri come quelli che coltiviamo: mais, soia, viti, girasoli, colza ecc.
Precipitazioni cumulate stagionali alla stazione di Fagagna (UD). Elaborazione da dati ARPA FVG. L’inverno 2023 è segnato in quanto manca un mese alla sua conclusione al momento dell’elaborazione.
I dati mostrano ciò che abbiamo già capito: il ciclo autunno 2021 – estate 2022 è stato particolarmente secco. In quel periodo a Fagagna sono caduti in totale 920 mm di pioggia, mentre la media dei cicli precedenti è pari a 1622 mm.
Cosa possiamo dire del ciclo appena iniziato? Innanzitutto che le precipitazioni autunnali a Fagagna sono state pari a 408 mm a fronte di una media dei cicli precedenti (escluso quello super secco) pari a 461 mm; quindi siamo sotto media, ma non come nel ciclo precedente, quando erano caduti 371 mm. Per quanto riguarda l’inverno finora possiamo dire che siamo arrivati a 112 mm, ovvero abbiamo già superato l’inverno secco del ciclo ’21-’22. Nei cicli precedenti rispetto a quello secco la media invernale era pari a 367 mm quindi sarà difficile ormai raggiungere il valore medio di precipitazioni invernali. Consideriamo finora abbiamo visto 6 decadi dopo il solstizio d’inverno e ce ne mancano ancora 3 per l’equinozio di primavera. Com’era andata nei cicli precedenti durante queste prime 6 decadi dell’inverno?
Precipitazioni cumulate nelle prime sei decadi dell’inverno a Fagagna. Elaborazione da dati ARPA FVG.
Esaminando questo dato un po’ di ottimismo potrebbe prenderci, perché in fondo finora non siamo andati male come nel ciclo scorso e nemmeno come in quello ’11-’12 che vide un inverno decisamente secco per questa zona dell’Alta pianura friulana (75 mm in tutto l’inverno, 68 mm nelle prime sei decadi). In quel ciclo anche l’autunno era stato povero di precipitazioni, pensate che allora caddero solo 282 mm di pioggia, mentre nell’autunno appena passato sono caduti 408 mm.
Tutto bene quindi? Mica tanto. Innanzitutto non ho ancora elaborato i dati piezometrici che raccontano come stanno le falde della pianura. In secondo luogo ispeziono continuamente i fiumi e le sorgenti, posso dire che “a occhio” gli apporti da sorgente sono molto bassi e stiamo partendo molto male. Inoltre l’innevamento non è buono e se non ci sarà una primavera molto piovosa, nell’estate 2023 saranno grossi guai, per fiumi fortemente modificati, rettificati e pieni di opere, trasformati in modo da fare scorre via rapidamente l’acqua in piena, ma anche in morbida e magra. In sostanza, abbiamo preparato una situazione che è la peggiore per affrontare le carenze di precipitazioni e continuare ad avere acqua. Ora si parla molto di invasi e microinvasi. Io parlo di quelli ma anche di modificare l’uso dell’acqua, perché restare ancorati al “resistiamo sulle posizioni del passato” è un errore che in natura non viene perdonato. E noi, cari umani, siamo pur sempre un ingranaggio di un meccanismo complesso e naturale.
Una riflessione da parte di uno nato in pianura, ma con la passione dell’alpinismo e che lavora in montagna da vent’anni; uno che ci lavora per preservare l’ambiente naturale, mica per costruire muri, però lo fa fianco a fianco con quelli che lassù ci sono nati. La riflessione fa sempre bene, il problema è che non ho veramente una soluzione, un modo per guidare un pochetto le cose nella maniera che piacerebbe a me. Al massimo potrei lamentarmi, protestare e indignarmi perché vanno in un’altra maniera, ma frignare non mi piace: quando le cose si mettono male, stringi bene gli scarponi e vai, passo lento e costante, ma vai.
Un baldo giovane me nel 1994 in SudTirolo (non è un selfi, non erano di moda e si usava la pellicola, che costava tantissimo per me)
La gente di montagna non vive delle mie idee romantiche, ma di denaro.Bês, schei! Spiegatemi con quale diritto, io che ho la casa in un posto dove per andare a fare la spesa al centro commerciale posso camminare appena 1 km in perfetto piano, potrei pretendere dagli abitanti della montagna di vivere con metà del mio reddito, per non turbare la mia sensibilità. Mi manderebbero subito a fare un giro sul mus!
Qua, se avessi lo sfondo giusto, mi sarei filmato e avrei fatto un monologo come quelli bravi che fanno i montanari in televisione. Per vostra fortuna non ho lo sfondo giusto e devo finire un lavoro su in Dolomiti, per cui non ho tempo. Il monologo è scritto al volo e via.
Il denaro non lo portano quelli come me, che consumano più che altro suole di scarponi e raramente qualche pasto in un rifugio. Il denaro lo portano migliaia, decine e centinaia di migliaia, di persone che vanno a farsi “i selfi” sul lago dove viene girata una qualunque serie tv, che presenta la montagna in modo appetibile per tutti, distorto e aberrante. Figurarsi che ho visto serie tv dove i sudtirolesi parlano veneto. Che se i’u cjate un di chei dai Schützen … li ingruma a secco. Mi fanno venire la gastrite, specie quando ci sono scene di gente che “va in montagna”. Sembrano degli impediti, vestiti da scemi, che fanno cose da storditi. Quella è l’immagine che ha di noi il “grande pubblico”. Ci credo che poi vorrebbero farci pagare l’elicottero anche se ci casca un macigno in testa per caso!
Fra i tacchi dell’Ogliastra (Sardegna orientale)
Ma i soldi li portano quelli che guardano quella roba lì, il sioreto che porta in gita la famiglia perché hanno visto “che bella che è la montagna in tv, andiamo a vedere, che poi ci facciamo i selfi e li vedono tutti, che noi siamo andati al lago come quelli della tv”.
Questi si presentano con le “sneakers”, quando si avvedono che il terreno è accidentato, camminano come un papero ubriaco su un vassoio coperto di biglie, dopo 100 m di dislivello gli viene un s’ciopon!
Bivacco Modonutti Savoia alla Sella Robon (Alpi Giulie, gruppo del Canin) – qui in infradito non ci si arriva proprio.
Allora, se i turisti non arrivano dove c’è l’attività, bisogna fare la strada, asfaltata! Il rifugio così diventa un alberghetto, con ristorante che sforna “piatti tipici” a ritmo da fast food di città, perché la domenica il nostro sioreto non è mica l’unico che ha avuto l’idea, sono migliaia, e bisogna macinare, macinare perché da settembre a dicembre non si lavora, da fine marzo a giugno non si lavora.
Cirque de Mafate, Île de la Réunion (Francia, dipartimento e regione d’oltremare nell’Oceano Indiano)
Facile fare filosofie, quando si ha un’attività che viaggia 12 mesi all’anno, o quando si è dipendenti di un’azienda che lavora 12 mesi all’anno e ti fa un bonifico 13 volte all’anno. Ma quando i turisti vengono 6 mesi all’anno, devi tirare su tutto sa? Se non sei in zona sciistica, devi fare grasso d’estate, come le marmotte. Certo, dove ci sono gli skilift ti va meglio, puoi fare grasso anche d’inverno. E se per farlo devi fare arrivare tutti i sioreti e i bauscia del pianeta a 2600 metri in infradito, boia can, vai dal presidente della Regione e gli dici che per avere il tuo voto deve fare la strada, la funivia, farlo arrivare sto fiume di umani che portano soldi!
Altrimenti hai due alternative: vivere come il nonno di Heidi (e i tuoi nonni) o mandare tutti in mona e scendere in pianura.
Immagine in falso colore da Sentinel 2, il tratto di alveo del Tagliamento a valle della confluenza del torrente Degano (10 settembre 2021)
C’è un motivo chiaro se dico che non dovremmo intervenire con ulteriori modifiche allo stato attuale del fiume Tagliamento. Questo fiume, già molto maltrattato dall’uomo, conserva ancora caratteri di grande valore, possibilità enormi di usi plurimi, come ho scritto nell’articolo Una difesa del Tagliamento. Quando iniziai a occuparmi professionalmente di fiumi, era sotto gli occhi di tutti che un’ampia parte del reticolo idrografico nel bacino montano del Tagliamento era soggetto a prolungate asciutte inverali ed estive. Eppure lo scrivemmo per la prima volta fra il 2004 e il 2005, quando la Regione iniziò a lavorare all’applicazione della Direttiva Quadro sulle Acque, la famosa 2000/60/CE.
All’epoca ero il biologo a contratto presso il Laboratorio Regionale di Idrobiologia dell’Ente Tutela Pesca del Friuli Venezia Giulia. L’ETP collaborò con il Servizio gestione risorse idriche della Regione, con l’ARPA e l’Università degli Studi di Trieste e insieme progettammo una serie di studi, allo scopo di comprendere e documentare gli effetti delle derivazioni a uso idroelettrico che alimentano la centrale di Somplago.
Quegli studi costituirono la base per qualcosa di molto importante: le misure di tutela quantitativa del Piano Regionale di Tutela delle Acque.
Imparammo allora che i fondovalle carnici sono, a tutti gli effetti, degli enormi canaloni pieni di sedimenti più o meno grossolani. Sulla genesi di questi canyon pieni di ghiaia ci sono ottime ipotesi, ma dato che non sono geologo, mi limito a osservare l’effetto superficiale: l’acqua può scendere nel materasso alluvionale, dove continua a muoversi verso il mare, ma in una porzione di spazio dove è inaccessibile per noi esseri di superficie. Sappiamo che non è sempre stato esattamente come ora e che il Tagliamento, in assenza di sbarramenti e derivazioni, era un fiume perenne nel tratto montano. Le asciutte si verificavano probabilmente, per brevi periodi, nel tratto molto disperdente fra la stretta di Pinzano e la linea delle risorgive. Questo favorì l’attraversamento, ad esempio al guado della Richinvelda, tristemente famoso per l’assassinio del nostro Patriarca il Beato Betrant. A monte di Pinzano il Tagliamento era stato perenne fino a metà del XX secolo.