La piccola pesca

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Esploriamo le possibilità per una pesca realmente “sostenibile”

Il mare è grande, si sa. I pesci sono miliardi, sembrano numerosi come le gocce d’acqua. Per secoli, millenni, abbiamo pescato cercando di migliorare sempre più le nostre capacità, inventando tecniche più efficienti e creando barche più grandi, reti più grandi, aumentando il così detto “sforzo di pesca” (fishing effort) per prelevare dal mare più pesce rispetto a quello che facevano i nostri nonni. Fino a quando il mare non è diventato piccolo e i pesci pochi.

Fish traps

Le risorse del mare sono oggettivamente rinnovabili, ma finite. Il mio professore, esperto di produttività del mare, mi ripeteva sempre: prendere gli interessi ma lasciare intatto il capitale. Aggiungo una chiosa, il capitale non è costante, perché non siamo gli unici a potere influire sulla sua consistenza.

Ciò che ha fatto la differenza nel corso del XX secolo è la grande capacità dell’uomo di pescare, ovvero di prelevare organismi dall’ambiente marino, in particolare alcuni di essi. Se non lo avete fatto, vi invito a leggere il bellissimo romanzo di Rudyard Kipling intitolato Capitani coraggiosi. Il romanzo narra la storia del giovane Havey Cheyne, che si trova a passare, indipendentemente dalla sua volontà, una stagione su un peschereccio impegnato nella pesca del merluzzo in Atlantico. La propulsione della barca da pesca è eolica, si tratta di uno snooze, ovvero di un tipo particolare di goletta (barca a vela a due alberi). La cattura dei pesci avviene usando lenze singole o al massimo il palamito (o palangrese). La capacità complessiva di cattura di quella barca era tale da richiedere una stagione di pesca per riempire la stiva, dove il pesce veniva conservato sotto sale.

Oggi il merluzzo viene pescato da grandi navi a motore, con potenze installate superiori ai 1000 HP (intendo molto superiori), che sono in grado di trainare grandi reti da strascico, capaci di catturare in un giorno più merluzzi di quelli che la barca da pesca descritta da Kypling poteva salpare in una stagione intera. Il tutto si traduce in un prelievo molto più grande, talmente grande che potrebbe intaccare la capacità dei banchi di pesce di riprodursi. I conti si fanno rapidamente, se un pesce può produrre X figli che arrivino alla maturità, ovvero alla capacità di produrre altrettanti X figli, bisogna che il numero di adulti riproduttivi sia tale da produrre ciò che noi peschiamo, più i futuri riproduttori. Se per sbaglio iniziamo a prelevare i riproduttori, ci troveremo con meno pesci fra un anno, meno ancora fra due, sempre meno fra tre.

Allora cosa faremo? Pescheremo di più, ovvero aumenteremo lo sforzo di pesca. Più ore di attività, motori più potenti, reti più grandi, per continuare a catturare la quantità di pesci dell’anno precedente. In questo modo ridurremo ancora di più il numero di riproduttori e il pesce diminuirà ancora. Ma per un certo tempo noi riusciremo a compensare la diminuzione, aumentando lo sforzo di pesca e continuando a portare a casa le stesse tonnellate di pesci da vendere, a un costo maggiore, perché ovviamente più carburante, più lavoro, significa maggiori costi per noi.

Tutto sta in piedi fino a quando non si arriva al collasso, che può essere della popolazione (o stock) di pesci, oppure della nostra azienda. Se lo sforzo (costo) che mettiamo in campo è talmente grande che dobbiamo lavorare come muli per 365 giorni all’anno e ci caviamo poco più delle spese, prima ci passa la voglia di lavorare, poi finiamo per avere più spese che entrate, ci indebitiamo, andiamo in crisi finanziaria e falliamo. Questa è l’ipotesi apparentemente più drammatica, perché parliamo di perdere lavoro e reddito per le famiglie dei pescatori, per tutti gli operatori dell’indotto, come i fornitori di attrezzatura, i riparatori, coloro che forniscono di qualunque cosa i pescatori e le loro famiglie.

L’ipotesi più drammatica invece è quella che si verifica se noi pescatori resistiamo abbastanza a lungo da portare la popolazione di pesci al collasso. Si arriva a un punto tale in cui i superstiti sono troppo pochi per consentire una ripresa. Ad esempio potrebbero essere troppo pochi per incontrarsi nel grande mare e riprodursi. In ogni caso, può anche darsi che si arrivi al collasso. Voi mi direte: non è possibile, peschiamo da millenni e non è mica successo nulla!

Peschiamo da millenni con le lenze a mano e piccole reti. La pesca con grandi navi a motore ha un secolo circa, durante il quale abbiamo prelevato molto di più rispetto ai nostri antenati, forse troppo. Ce ne accorgeremo in tempo?

Non volevo però parlare di grande pesca industriale, ma ragionare su quella pesca che è “rimasta indietro”. La piccola pesca costiera, pur usando materiali moderni, barche a motore, refrigeratori, apparati GPS, ecoscandagli, ha ancora una capacità di cattura relativamente bassa. L’ispirazione mi viene più che altro dalla nostra laguna, quella dove sono attive le comunità di Marano e Grado. La pesca qui ha metodi e dimensioni che sono quelli di un tempo, con alcune differenze relative ad esempio alla pesca delle vongole, dove il motore fa la differenza, ma se parliamo della pesca con gli impianti fissi, ovvero dei lungi pannelli di grisioi fissati al fondo, che guidano i pesci ai cogoi (bertovelli), tutto è rimasto invariato negli ultimi venti secoli, eccetto i materiali. Invece del pannello di canne e del bertovello di rametti di salice si usano reti in filato di nylon o altri polimeri, che forniscono anche la materia prima per i bertovelli. I paletti che sostengono le reti sono sempre di legno, mentre i suri (sugheri, ovvero galleggianti) sono diventati di polistirolo o di altro materiale plastico. In fin dei conti, un impianto formato da un pannello di rete lungo 80 metri, con in testa due o quattro bertovelli, cattura oggi come catturava cento anni fa. E in questo caso sappiamo che sono effettivamente venti secoli che si pesca senza esaurire la risorsa.

Lo stesso vale quando parliamo di calare nasse. Ovviamente con la barca a motore siamo capaci di portare più nasse e distribuirle su una superficie maggiore, inoltre abbiamo nasse di plastica che pesano meno di quelle di salice, canna e legno, ma durano più a lungo, ma in definitiva è improbabile che un operatore della piccola pesca riesca a catturare il doppio rispetto a suo nonno. Chi ha i pescherecci da strascico invece pesca quattro, cinque, dieci volte più di suo nonno.

La piccola pesca, molto diffusa lungo le coste del Mediterraneo, è effettivamente l’unica che possa essere in qualche modo regolamentata per rimanere “sostenibile”. Dico rimanere e non diventare, perché la storia dimostra come fosse sostenibile già secoli or sono. Piccola pesca significa ovviamente fatica, i sacrifici che chiunque tragga reddito da una risorsa naturale deve sostenere, significa capacità, occhio ed esperienza, significa rischio, guadagni non faraonici. Ma chi di noi fa guadagni pazzeschi col proprio lavoro? Forse l’1 permille degli italiani. Il 999 permille ha un reddito dignitoso o aspira ad averlo. La piccola pesca può consentirlo, ovviamente non a tutti, ma genera anche un’economia, un indotto, perché anche la barca con due o tre persone di equipaggio ha un motore, usa reti e nasse, consuma carburante, i pescatori devono avere equipaggiamento personale e collettivo, riforniscono negozi e ristoranti. La piccola pesca oltre tutto può dare pesce fresco, di qualità straordinaria, che costerà forse più di quello allevato, ma con caratteristiche differenti.

Io non disdegno per nulla il prodotto ittico allevato, ci mancherebbe. Probabilmente in un anno mangerò 30 orate allevate e forse 1 di pesca, però conosco la differenza. Sono sapori diversi, a volte decido che spendere il doppio valga la pena, altre volte non sono particolarmente incline a spendere, perché non sono ricco a sufficienza, ma sono contento anche del mio pesce di gabbia da 13 €/kg, pur sostenendo la necessità e l’importanza di una piccola pesca che continui a garantirmi la presenza sul mercato di un buon pesce selvatico da 25 €/kg o più, per i giorni di festa.

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